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SAN FRANCESCO D'ASSISI

Origini e gioventù

Francesco, l’apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale.

La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo. Questo nome era l’equivalente medioevale di ‘francese’ e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasione di mercato, o, forse, in onore della moglie francese. Questo spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l’aveva imparata dalla madre.

Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisani godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen. Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l’erede dell’attività di famiglia.

Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.

 

Conversione

Con la morte dell’imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l’elezione a papa del card. Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen. Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all’imperatore e sfruttatori dei loro concittadini. Essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l’aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).

Francesco, con lo spirito dell’avventura che l’aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche. Dopo la disfatta subita dagli assisani a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno. Solo dietro il pagamento di un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa. Una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un’indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.

Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” ed a ritornare ad Assisi. Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini. Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d’intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza. Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell’autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che, come vedi, cade tutta in rovina”.

Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno. A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.

Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.

 

La vocazione alla povertà e l’amore per gli ultimi

Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento…”.

Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa; depose allora i panni del penitente e prese la veste “minoritica”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi. Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei massimi protagonisti. In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente. Ultimo fra gli ultimi sentì la spinta a farsi prossimo degli emarginati di quella società per ridonare a ciascuna creatura la dignità di figlio di Dio. La sua attenzione partiva dagli ultimi del suo tempo: i lebbrosi, fino ai prelati dai costumi morali smodati, non faceva distinzione di persone o di rango, ogni persona incontrata era un fratello da amare con rispetto.

 

Inizio della vita fraterna

A partire dal 1208, attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli. Essi formarono una specie di ‘fraternità’ di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.

Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l’assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.

Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare un primo progetto di vita evangelica. Questi principi di vita, chiamati oggi “Proto-Regola”, furono approvati oralmente dal papa, nacque così ufficialmente l’Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero. Forse in quest’occasione Francesco ha ricevuto il diaconato.

 

Chiara e le clarisse

Tutta Assisi parlava del cambiamento del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “Il Signore ti dia pace”. Nella primavera del 1209aveva predicato perfino nella cattedrale di S. Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Offreduccio e sicuramente in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima Chiara.

Ella rimase affascinata dalle sue parole e dalla sua vita di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio, inviandogli spesso del denaro. Col tempo quella frequentazione si trasformò in decisione e nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211 (o 1212), abbandonò di nascosto il suo palazzo. Nella chiesetta della Porziuncola, Chiara chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.

Francesco, davanti all’altare della Vergine, accolse la consacrazione di Chiara e le tagliò la bionda e lunga capigliatura. Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare. Successivamente si unirono a Chiara altre ragazze le quali, dopo alterne vicende, si stabilirono nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel1215, a 22 anni, Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S. Damiano” (il nome ‘Clarisse’ fu preso dopo la morte di s. Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella di Chiara stessa. Con le sue compagne, Chiara sarà l’incarnazione al femminile dell’ideale di Francesco, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.

 

L’ideale missionario

Francesco non desiderò la vita evangelica solo per sé e i suoi frati, ma si dedicò alla predicazione nel mondo cristiano e volle raggiungere anche i non credenti, specie i saraceni, come veniva chiamato allora il mondo islamico. Se in quell’epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.

Francesco tentò più volte l’impresa missionaria. Senza potervi giungere, partì per una missione in Siria nel 1211(?), e verso la Spagna tra il 1213 ed il 1215). Solo con un terzo tentativo, tra il 1219ed il 1220, Francesco giunse a Damietta, in Egitto, dove si presentò al sultano Al-Malik al Kamil, che lo ricevette con onore e lo ascoltò con interesse. Il sultano non si convertì, ma Francesco poté mostrare un nuovo modo per relazionarsi con il mondo islamico, dimostrando che il dialogo ed il rispetto potevano essere possibili fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.

Francesco mandò anche i suoi frati in Spagna, all’epoca occupata dai Musulmani, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano. Di seguito, in Marocco, il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.

 

La Regola di vita

Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia perché i suoi frati erano cresciuti ormai in numero considerevole e si sentiva il bisogno di una costituzione più ampia e solida rispetto all’originaria forma di vita, che Innocenzo III aveva approvato oralmente.

Il Poverello non aveva inteso fondare un ordine religioso, ma il gran numero di frati ormai sparsi per tutta l’Italia poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell’apostolato in un mondo sempre in evoluzione. In particolare la vita di povertà evangelica sembrava difficile da vivere nella concretezza. Nel “capitolo delle stuoie”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco redasse un nuovo statuto, la cosiddetta “Regola non-bollata”, che strutturava ed ampliava la precedente forma di vita. Forse in quell’occasione, autorizzò anche il dotto Antonio venuto da Lisbona, d’insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.

In un percorso certo non facile, Francesco completò la definitiva Regola a Fontecolombo (RI). Il cuore della Regola è costituito dalla vita evangelica (cap. I) e la vita povera e sine proprio, “senza nulla di proprio” (cap. VI). Accolta dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX, la nuova forma di vita fu approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III e per questo prese il nome di “Regola bollata”.

Nello stesso anno, la notte del 24 dicembre 1223, Francesco, attratto sempre più dall’amore per il suo Signore, volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l’umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi. Nacque così la suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano.

 

Il dono delle Stimmate e la morte

Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo della sua fraternità, ormai divenuto un vero e proprio Ordine religioso.

Nell’estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”. La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, visse forse il vertice della sua esperienza di fede, che lasciò nel suo corpo i segni della passione. Forse per la prima volta nella storia della cristianità, si è testimoniato il miracolo delle stimmate. Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi.

Dopo le ultime prediche all’inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore. E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose parte del famoso “Cantico delle Creature”, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l’adorabile presenza di Dio.

In questo stesso periodo a Fontecolombo Francesco subì un intervento agli occhi. Infatti, la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente. Per l’interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale che all’epoca era a Rieti. Nell’estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un’altra grave malattia, l’idropisia.

Dopo un’altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po’ di refrigerio, i frati visto l’aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all’amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni.

Il 16 luglio 1228 papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte lo proclamò santo.

 

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